Intervista condotta da Gabriele Giacomini (Fondazione Giannino Bassetti).
Per limitare l’avidità di dati serve una fiscalità del digitale
L’obiettivo di questo “secondo giro” di interviste è, in primo luogo, analizzare le principali sfide alla cittadinanza poste dalla diffusione pervasiva delle ICT e in secondo luogo, individuare le diverse proposte teoriche e pratiche avanzate da filosofi, giuristi, politologi, nonché le azioni fattuali che sono state messe in campo da istituzioni private, amministrazioni locali e governi statali per la promozione di una cittadinanza digitale autonoma e consapevole, che porti all’elaborazione di un habeas mentem adeguato alle sfide presenti e future di una comunità politica (nel senso di polis) sempre più innervata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. (NdR)
(Sotto il video, sintesi ed elenco delle domande.)
Antonio A. Casilli è professore ordinario di Sociologia alla Telecom Paris, scuola di ingegneria delle telecomunicazioni dell’Institut Polytechnique de Paris. Dal 2007 coordina il seminario “Studiare le culture digitali” alla Scuola di studi superiori in scienze sociali di Parigi (EHESS). È fra i fondatori dell’INDL (International Network on Digital Labor). Fra i suoi libri, tradotti in diverse lingue: “Les Liaisons numériques” (Editions du Seuil 2010), “Against the hypothesis of the end of privacy” (con Paola Tubaro e Yasaman Sarabi, Springer 2014), “Trabajo, conocimiento y vigilancia” (Editorial del Estado 2018), “Schiavi del clic” (Feltrinelli 2020).
Intervista del 13 novembre 2020.
Con le tecnologie digitali non siamo usciti dalla società industriale. Abbiamo, invece, aggiunto un nuovo “livello”, rappresentato dalla “datificazione” del reale. L’informazione, rappresentata dai dati, diventa un fattore produttivo centrale.
Grandi protagonisti di questa nuova fase del capitalismo sono le piattaforme, architetture informatiche, caratterizzate da vere e proprie finalità politico-programmatiche (come suggerisce la genealogia del concetto “piattaforma”). La loro filosofia si basa su tre principali idee: la condivisione libera dell’informazione, la diffusione del lavoro autonomo e l’abbandono del lavoro salariato, il superamento degli stati-nazione. Inoltre, rispetto alle imprese del secolo scorso, le piattaforme oltrepassano i confini dell’azienda in senso stretto, diventando delle aziende-mercato, e non sono più dominate dall’ossessione di produrre valore, ma di estrarre valore dai loro utenti-produttori. Alla base del capitalismo digitale, dunque, troviamo una massa di lavoratori impliciti che, in diverse forme, producono l’enorme mole di dati necessaria al funzionamento delle piattaforme.
La gestione (e il controllo) dei dati diventa, quindi, terreno di contesa fra piano economico e piano politico, fra il livello dei consumi e quello della cittadinanza. Un esempio di ciò è la “fine della privacy”. Secondo i lobbisti delle piattaforme, la privacy in quanto valore politico sarebbe una parentesi storica. Ovviamente, la “fine della privacy” è commercialmente utile per le piattaforme. Al contrario, la privacy è un problema per il business model di molte piattaforme, che acquisiscono dati e li rivendono. Per i cittadini, invece, la privacy resta una delle preoccupazioni sociali principali. Lo manifestano in modo diretto, ad esempio crittografando le loro comunicazioni, oppure facendo “pulizia” dei propri dati sulle piattaforme. Le piattaforme cercano di liberare i dati, gli utilizzatori invece cercano di chiuderli tatticamente.
Il GDPR europeo ha provato una sintesi fra promozione del mercato digitale e rispetto di standard minimi di protezione dei dati personali. Si tratta di un primo passo nella giusta direzione. Ma ci sono altri strumenti: ad esempio, l’antitrust, che può redistribuire il potere di mercato delle grandi piattaforme ma che può essere utilizzato anche per impedire a professionisti e lavoratori indipendenti del digitale di federarsi e sindacalizzarsi. Promettente sembra essere il settore della fiscalità del digitale. Così come è stata introdotta una tassa sulla produzione dell’inquinamento, si potrebbe congegnare una tassa sull’estrazione dei dati della popolazione di uno stato. Sarebbe un incentivo a limitare l’estrazione dei dati, perché questa avrebbe un costo maggiore rispetto ad oggi e spingerebbe le imprese digitali a soluzioni meno avide in termini di dati. È assolutamente sbagliata, invece, l’idea di retribuire gli utenti.
Queste le domande poste nell’intervista:
1. min. 0:51 – Rispetto alla società industriale, quali sono i poteri emergenti connessi allo sviluppo delle tecnologie digitali?
2. min. 4:53 –Nel tuo ultimo libro, “Schiavi del clic”, presenti il concetto di piattaforma attraverso la sua genealogia, facendone emergere l’aspetto politico. Quale è la natura essenziale delle piattaforme digitali e quali sono le varie forme con cui si declinano?
3. min. 16:57 –Fra le varie “profezie desideranti” delle piattaforme troviamo la fine dalla privacy su Internet. Questa idea ti convince? Gli individui sono pronti a sbarazzarsene o tengono ancora alla loro privacy?
4. min. 28:12 –Che ne pensi del Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’Unione Europea? Quali sono i suoi punti di forza e quali i punti di debolezza?
5. min. 32:38 –Oltre al GDPR, quali sono gli altri strumenti per limitare la raccolta dei dati personali e la profilazione dei comportamenti? Si pensi, ad esempio, all’antritrust.
6. min. 41:05 –Considerato che i dati raccolti dalle piattaforme dipendendo dal “lavoro volontario” in rete degli utenti, questi ultimi dovrebbero essere “retribuiti”? È una operazione auspicabile e realizzabile?
7. min. 49:02 –I “diritti digitali” di cui si discute da alcuni anni sono molti: oblio, identità digitale, accesso, anonimato, partecipazione eccetera. Quale è il diritto più importante nella società digitale?
8. min. 52:49 –La “rivoluzione digitale” sollecita in molti modi la democrazia. Quale sarà il suo futuro?