Il lavoro spezzato (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 26 juin 2017)

A l’occasion de mon intervention lors du Jobless Society Forum de Milan (30 mai 2017), la chercheuse Valentina Colombi a produit ce texte qui développe les sujets traités dans ma présentation. Le texte (en italien) est accompagné par deux courts extraits d’une vidéo interview que j’ai accordée en marge de la conférence.

Il lavoro spezzato.
Micro-lavoro e pluriattività dall’età industriale all’era digitale
 L’automazione del lavoro nell’era del click

L’integrazione tra lavoro umano e lavoro meccanico ha avviato, dalla prima rivoluzione industriale in poi, una serie di trasformazioni ben più complesse della semplice profezia della “grande sostituzione” degli esseri umani per mano dei processi automatici.

Con buona pace di tutte le teorie millenaristiche e fantascientifiche sulla fine del lavoro umano nell’era delle macchine, l’automazione non coincide – neanche ora, in tempi di dispositivi sempre più intelligenti – con una completa autonomia del lavoro meccanico da quello dell’uomo.  Certo, per tener dietro a un progresso sempre più incalzante, l’uomo ha dovuto procurarsi un grado crescente di alfabetizzazione tecnologica. Ma sinora, anche il lavoro dei macchinari più raffinati ha avuto e ha ancora bisogno di interventi “qualitativi” che non possono essere svolti meccanicamente. E così, il “fattore umano” ha difeso e per certi versi addirittura valorizzato il suo spazio nel lavoro industriale.

L’altra faccia della medaglia è che tutti i processi che sono man mano rimasti fuori da questo ambito di “responsabilizzazione tecnologica” si sono trasformati in lavori marginali, “micro-lavori” nel senso proprio della loro riduzione a un gesto, a un segmento produttivo minimo, talmente insignificante da non poter dar luogo a una pur minima cultura del lavoro.

Su attività così dequalificate non è possibile costruirsi un’identità lavorativa. Esse diventano tipiche di fasi precarie della vita produttiva, di soggetti che entrano ed escono dal mercato del lavoro o che per restare nel mercato del lavoro devono adattarsi a uno scenario frammentato, a cambiare continuamente attività o a svolgere più attività contemporaneamente.

La rivoluzione digitale non ha fatto altro che adattare a questo quadro i lavori legati alle nuove tecnologie. Anzi, l’automazione sempre più raffinata, l’intelligenza artificiale e la smaterializzazione produttiva – ciò che si produce sono dati e non più beni materiali – hanno, se possibile, banalizzato ulteriormente la mansione minima passibile di diventare “lavoro”. Il sociologo Antonio Casilli (Télécom ParisTech) parla – a proposito di questa parcellizzazione del processo produttivo portata agli estremi – di taskification e addirittura di clickizzazione del lavoro, un processo sta condizionando ogni ambito produttivo e professionale che comporti un’interazione con le piattaforme digitali.

Antonio Casilli: Uomini e macchine dalla fabbrica al click

I micro-lavori del click sfuggono alle tradizionali forme di tutela del lavoro, creando situazioni di sfruttamento che la normativa e gli organismi di rappresentanza sindacale faticano a inquadrare e dunque a contrastare. Non solo: oggi lavorare ai margini significa anche che le mansioni più riduttive e spersonalizzanti sono affidate a lavoratori che operano nei distretti periferici dell’economia globale, dove diritti e tutele del lavoro hanno ancora molta strada da fare. Per questo la politica – nota ancora Casilli – non può che trovare risposte sul piano internazionale.

Antonio Casilli: Frammentazione del lavoro: come interviene la politica?

 

La simbiosi-uomo macchina nel sistema di fabbrica

Questa estrema marginalizzazione del lavoro umano nel sistema meccanico è un fatto per certi versi connaturato al sistema stesso. Fin dagli albori dell’età industriale, l’automazione ha comportato anche una scomposizione del processo produttivo in fasi, le quali non sono più legate alle abilità umane – e dunque a un “mestiere” che su quel dato processo produttivo costruisce una vera e propria cultura di gesti e di saperi –, ma dipendono invece dalla possibilità di sviluppare un macchinario in grado di svolgere quell’attività. Il lavoratore viene posto ai margini del processo creativo che fino ad allora aveva caratterizzato ogni genere di produzione: non è più responsabile della bontà o meno del risultato, nemmeno di una parte di esso.

Lo notava già, con toni entusiastici, il chimico e divulgatore Andrew Ure nel 1835, autore di un trattato sul sistema manifatturiero che in quella prima metà del XIX secolo stava ormai rivoluzionando l’economia del mondo.

Il principio del sistema di fabbrica è quello di sostituire la scienza meccanica all’abilità manuale e di ripartire il processo nei suoi elementi costituivi, al fine di suddividere o di impostare per gradi il lavoro tra gli artigiani. […] Nel modello dell’automazione, il lavoro specializzato viene progressivamente superato e alla fine rimpiazzato dalla presenza di meri controllori del lavoro meccanico. A causa dell’imperfezione della natura umana, succede che più il lavoratore è abile, più esso è incline a diventare ambizioso e indocile, e meno si dimostra in grado adeguarsi a rappresentare un componente di un sistema meccanico, all’interno del quale, in conseguenza di irregolarità occasionali, egli rischia di arrecare un grave danno all’intero processo. Pertanto, il grande obiettivo del moderno imprenditore manifatturiero è – unendo capitale e progresso scientifico – quello di ridurre le mansioni dei suoi lavoranti all’esercizio della vigilanza e della destrezza; facoltà che, se concentrate in un unico processo, possono essere rapidamente sviluppate a perfezione in un giovane. […]

Andrew Ure, The philosophy of manifacturing, London 1835 (dal patrimonio Fondazione G. Feltrinelli)

 

Telai meccanici nella fabbrica di Stockport, 1835, immagine tratta dal patrimonio di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

L’uomo è al servizio della macchina e nel migliore dei casi può esercitare su di essa un’attività di controllo che richiede qualche conoscenza e una certa esperienza (l’alfabetizzazione tecnologica di cui si diceva); nel peggiore, deve solo essere in grado di integrare il suo lavoro con quello della macchina, adeguarsi alla sua velocità e precisione, con una buona dose di “atleticità” ma senza che siano necessari speciali saperi e apprendistati. Scrive ancora Ure:

Mr. Anthony Strutt, responsabile del dipartimento macchine delle grandi fabbriche cotoniere di Belper e Milford, ha preso tali distanze dalla tradizionale consuetudine scolastica da rifiutarsi di assumere uomini che hanno imparato il mestiere in un regolare apprendistato. Invece, a spregio – per così dire – del principio della divisione del lavoro, ha messo un contadinello a far ruotare un albero che pesa probabilmente parecchie tonnellate; e non ha mai motivo di pentirsi di questa scelta, perché il giovane esercita su quell’apparato girevole un’azione talmente precisa da risultare eguale se non superiore alla perizia di qualsiasi operaio qualificato.

Largo ai deboli

Nel ragionamento di Ure l’osservazione dell’efficienza e della forza dell’automazione sfocia in un’esaltazione della gioventù come età della forza e della “destrezza”, finalmente messa al centro di un sistema produttivo capace di minare le basi della tradizionale trasmissione del sapere, dagli anziani ai giovani.

Naturalmente, noi che la leggiamo oggi cogliamo nell’immagine del “contadinello” che lavora al grosso albero meccanico una realtà del lavoro industriale ben diversa dalla radiosa visione proposta dal divulgatore inglese. Come sappiamo bene, l’industria alla conquista del globo fagocitava rapidamente i soggetti sociali più fragili – i bambini, le donne – non certo per valorizzarne il contributo ma per abbattere i costi e aumentare il profitto. Con buona pace di Ure, la gioventù sarà a lungo nella storia del lavoro di fabbrica un elemento di marginalità e un fattore di debolezza contrattuale.

Cinquant’anni più tardi Ettore Friedländer, allora direttore dell’Agenzia Stefani e attento osservatore della realtà contemporanea, in un suo libro dedicato a Il lavoro delle donne e dei fanciulli (Roma 1886) individuava ancora nelle macchine la causa principale del lavoro femminile e minorile dell’industria: “Una conseguenza […] della grande produzione è stata quella di creare una serie d’occupazioni tali da trar profitto di tutte le forze, di tutte le capacità. Nei campi ove le macchine sono meno diffuse codesta gradazione di lavori è minore […]. Nell’industria, nella grande industria specialmente, oggetto di tante accuse, appunto per la grande diffusione delle macchine, questa ripartizione può farsi più facilmente che in ogni altra; essa offre occupazione a tutti, proporzionate ai sessi ed all’età”.

Come testimonia anche il lungo e difficile percorso di riconoscimento del lavoro femminile e di lotta al lavoro infantile, le fasi del lavoro “proporzionate” a questi soggetti in realtà sono state sempre mansioni accessorie, non caratterizzate da un periodo di formazione che si configura come abilitante, né sostenute da una rappresentazione di sé e del proprio lavoro in grado di alimentare anche la coscienza dei propri diritti.


Incisione da fotografia,  The British Workman, gennaio 1872, tratta da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Quanti lavori fai?

Vecchie e nuove forme di micro-lavoro hanno tradizionalmente esposto categorie di lavoratori deboli alle difficoltà di una sottoccupazione che spesso ha anche implicato la necessità di integrare diverse attività per accedere a un reddito minimo. Forme di pluri-attività sono presenti fin dagli scenari proto-industriali che lasciavano spazio al prosieguo di un’attività artigianale da parte dei lavoratori, o negli ambiti rurali dove da sempre il lavoro di fabbrica si è integrato al lavoro dei campi.

La complessità del lavoro contemporaneo, con la sua tendenza a generare attività non standard che restano fuori dalle tradizionali forme di tutela e contrattualizzazione, ha esteso in modo impressionante il bacino dei lavoratori pluri-attivi. La situazione è in parte nuova e diversa rispetto al passato: sebbene non si possa dire risolta e superata la questione della marginalità di queste forme di “lavoro spezzato” – perché evidenti sono ancora le criticità sul piano della regolamentazione e delle protezione sociale che sollecitando nuove e urgenti risposte in termini di welfare – si apre anche un nuovo scenario di opportunità. Lo dimostra, ad esempio, l’esplosione della gig-economy, una declinazione particolarmente significativa – in termini di produzione di ricchezza e disseminazione di servizi – della pluri-attività contemporanea. Pur in un quadro di provvisorietà e precarietà, queste nuove figure – che ormai non interessano soltanto contesti di lavoro cognitivo e creativo – mettono in discussione antiche relazioni di padronato, accedono a modi e tempi di lavoro veramente autonomi, hanno una maggiore libertà di movimento e possibilità di apprendimento e di sviluppo creativo impensabili per le omologhe figure “standard”. In questo modo, si sta configurando un nuovo modo di mettersi al centro del lavoro contemporaneo, nei fatti e negli stili di vita se non rispetto alla forza contrattuale: soprattutto attraverso nuove forme di collaborazione, nuovi spazi di coabitazione lavorativa, nuove reti di sostegno collettivo, nuovi modi di condividere strumenti e conoscenze. Tanti lavori, quindi. Ma anche l’opportunità di allestire plurimi percorsi di senso, scambio e condivisione.