Jobless Society/Non è vero che i robot ci ruberanno il lavoro
29 MAGGIO 2017 | di Barbara D’Amico
(di Barbara D’Amico)
E’ uno dei relatori di Altri lavori, altri lavoratori, titolo della seconda edizione del Jobless Society Forum (Milano, 30 maggio) – incontro pubblico di confronto internazionale sui temi della rivoluzione 4.0 e del futuro del lavoro – ma Antonio Casilli studia già da anni l’evoluzione di ciò che viene definito digital labour e che in genere si riassume in questa domanda: i robot e l’intelligenza artificiale ruberanno davvero il lavoro agli uomini?
«Sono un sociologo e studio soprattutto il lavoro e la trasformazione del lavoro portata dall’introduzione delle piattaforme digitali, quindi posso definirmi un sociologo del lavoro digitale», spiega a La Nuvola Casilli, italiano, classe 1972 ma professore associato di Digital Humanities presso il Telecommunication College of the Paris Institute of Technology (Télécom ParisTech).
Con una serie di pubblicazioni all’attivo sull’impatto della tecnologia sull’organizzazione del lavoro, Casilli presenta una posizione peculiare rispetto all’idea secondo cui l’intelligenza artificiale e i robot sono una minaccia per operai, freelance e impiegati (ne avevamo già parlato a ridosso della pubblicazione del Rapporto McKinsey sui lavori potenzialmente soppiantabili dall’intelligenza artificiale).
«Io non concordo con la linea secondo cui l’Intelligenza Artificiale (AI) farà perdere posti di lavoro – spiega – La robotizzazione non è un processo lineare ma una scelta manageriale: è chi decide in azienda che sceglie di rimpiazzare il lavoratore, non il robot che non può fare scelte. Il robot non è che una specie di pretesto che il capitalista delle piattaforme usa per sbarazzarsi del ‘lavoratore salariato’ e reclutarlo in un secondo momento come coworker». In questo modo però un lavoratore può svolgere più task, magari imparare qualcosa di nuovo? «Non direi, concordo certamente con quella corrente di pensiero che sostiene che la tecnologia trasformerà, come già avviene, le competenze; però sono meno ottimista di alcuni miei colleghi sulle vere competenze che saranno introdotte… Non basta dire che si impareranno nuove cose e che da qui a 50 anni avremo lavoratori migliori perché più allineati con il mercato digitale e il loro lavoro sarà meno abbrutente».
Secondo Casilli infatti, le competenze richieste ai nuovi lavoratori del digitale – i microworkers – sono in realtà più povere e meno creative di quanto non avvenisse in passato, specialmente per alcune tipologie di mestiere. Colpa di uno dei processi più evidenti messo in moto dall’introduzione di servizi digitali come quelli offerti da Google, Facebook, Amazon: e cioè quello che porta alla “dataificazione” e alla cottimizzazione dei mestieri.
«Pensi al postino che una volta consegnava solo lettere e oggi invece consegna e registra quelle consegne su un tablet – continua Casilli – Ecco, l’attività che svolge si tramuta in dato e la raccolta o l’inserimento dei dati diventa una task. Le task portano alla cottimizzazione, la trasformazione di mestieri complessi in lavoro a cottimo per cui si è pagati sulla base di una specifica task».
Uno dei casi più interessanti secondo il docente di Digital Humanities è quello creato da Amazon con la piattaforma Amazon Mechanical Turk (letteralmente piattaforma del “Turco meccanico”, espressione che si riferisce a un finto automa del Diciottesimo secolo creato per giocare a scacchi ma che in realtà al suo interno era animato da un uomo in carne ed ossa). «Se lei è una impresa e vuole che qualcuno svolga per lei delle funzioni/task può andare sulla piattaforma di Amazon e reclutare o ingaggiare in unica soluzione anche 10 mila persone che realizzino delle microtask – spiega Casilli – Ad esempio rispondere a questionari, classificare delle immagini, inserire dati. Qui il principio del crowdsourcing è spinto all’estremo ma dimostra anche una cosa importantissima: che l’Intelligenza Artificiale così di default non funziona perché ha bisogno di imparare, di fare machine learning. E chi insegna all’AI ad essere intelligente per svolgere un lavoro? Le folle di microworkers».
Se i robot, o meglio l’insieme di codice e software che determina la produzione di una azienda, non sono in grado di scippare il lavoro all’uomo (e nonostante il tono allarmistico, persino il rapporto del World Economic Forum di gennaio 2016 in realtà mostra che il processo di “scippo” delle mansioni è più complesso e richiede massicci investimenti tecnologici), è indubbio che la digitalizzazione del lavoro stia comunque impoverendo competenze e salario di persone in carne e ossa. Un problema a cui però ancora non è stata trovata soluzione.
«Più che di salario io credo che nell’era del digital labour sia più corretto parlare di reddito universale e reddito di cittadinanza. La struttura stessa del mercato del lavoro in un contesto di mercato digitale deve superare la logica salariare perché oggi il compenso purtroppo è legato alla task mentre dovrebbe essere legato al fatto stesso che il lavoratore è connesso alla piattaforma digitale: se la vera ricchezza su cui oggi contano Amazon, Google&Co sono i dati prodotti dagli utenti e se noi tutti produciamo dati allora tutti, in quanto prosumers, dovremmo accedere a un reddito universale».
Ma lei come finanzierebbe una misura simile? «Attraverso una fiscalità digitale commisurata alla produzione di valore delle piattaforme: se si tassassero le digital company sulla base della produzione dei dati potremmo redistribuire quella componente di ricchezza a vantaggio dei lavoratori digitali».
Oggi non sembra possibile difendere i microworkers e i sindacati faticano a trovare strumenti rappresentativi di questa fetta sempre più consistente di lavoratori. «Invece il sindacato è oggi più importante che mai a dispetto del fatto che non sia percepito come realtà capace di difendere le istanze delle fasce più esposte – precisa Casilli – Però, le posso dire? C’è una grande effervescenza sul tema del digital labour in ambito sindacale, soprattutto in Europa. In Germania e Svezia ad esempio. Nel 2016 è stata lanciata la Carta di Francoforte in cui i sindacati svedesi e tedeschi si chiedono quali saranno i diritti dei digital workers. Inoltre alcuni stanno creando piattaforme sindacali digitali: è il caso del sindacato dei metalmeccanici tedeschi che ha creato una piattaforma rivolta ai lavoratori digitali, quindi se lei lavora per Amazon o Uber si può iscrivere e segnalare anomalie, abusi ecc… Oppure altri sindacati in Francia hanno iniziato a pensare a forme di app per coordinare gli scioperi, parlare direttamente con gli operai».
E in Italia? «In Italia ci sono 40 anni di subordinazione e para-subordinazione nel mondo del lavoro da mettere sul piatto e l’idea che mi sono fatto è che spesso si diano una parte dei lavoratori di questo vecchio mondo per spacciati, ma appunto è un’idea sbagliata». Inoltre, in quest’ottica di trasformazione, avrà senso tra 30 anni parlare ancora di gerarchie nel mondo del lavoro? «La vera risposta è che le gerarchie si riconfigureranno in un asse back office e front office – conclude Casilli – Oggi la struttura gerarchica delle imprese classiche è quella rappresentata da direttori, quadri, esecutori… Invece le piattaforme digitali ci obbligano a rivedere gli organigrammi: ora conta l’API, l’interfaccia stessa della piattaforma».
Ovvero? «Tutto quello che accade al di qua dell’interfaccia (le consegne dei cibo, il trasporto del passeggero, e via dicendo) è quello che fanno i microworkers, al di là invece ci sono decisioni prese da un software ma soprattutto decisioni manageriali. Meno struttura piramidale, quindi, e più struttura binaria. Ma al di là dell’organizzazione del lavoro quello che mi preme far passare è che in realtà il digital labour è molto materiale, molto più tangibile di quanto si creda. C’è stata una grande tradizione di ricerca italiana sul lavoro immateriale, ma le piattaforme invece ci mostrano che è tutt’altro che così: il lavoro digitale comporta anche problemi di salute, di sicurezza, aspetti che dobbiamo tenere in considerazione». Nessun allarmismo, dunque, ma un sano bagno di realtà che forse ridimensionerebbe i timori sul futuro del lavoro (e sui lavori del futuro) e non ci farebbe cogliere impreparati da una travolgente avanzata tecnologica.