Sur le quotidien La Repubblica, le journaliste Fabio Gambaro interviewe Antonio Casilli, auteur de Les liaisons numériques. Vers une nouvelle sociabilité ? (Ed. du Seuil). Corps, redéfinition de la vie privée en ligne, apprentissage social des nouveaux usages et engagement politique… ce sont les sujets traités dans cette interview – la première accordée par le sociologue à la presse italienne depuis 2001.
Relazioni digitali
Intervista allo studioso Antonio Casilli, che ha pubblicato in Francia un saggio dove smentisce molti luoghi comuni sull´universo informaticoPARIGI Trasformando la nostra percezione dello spazio, del corpo e delle relazioni sociali, l´universo delle nuove tecnologie digitali ci costringe a riflettere criticamente sulla natura profonda della realtà in cui viviamo. Una riflessione a cui si dedica proficuamente Antonio Casilli, specialista delle culture digitali che da diversi anni si è trasferito in Francia, dove le sue analisi sulle nuove forme di socialità della rete sono molto apprezzate e discusse. Nel suo ultimo saggio, Les liaisons numériques (Seuil, pagg. 331, euro 20), lo studioso critica radicalmente i falsi miti che hanno accompagnato lo sviluppo delle nuove tecnologie, a cominciare da quello relativo alle minacce dello spazio virtuale: «La teoria della smaterializzazione del reale prodotta dalle nuove tecnologie digitali è una teoria figlia della letteratura degli anni Ottanta», spiega Casilli, che dopo aver lavorato all´École des Haute Etudes en Sciences Sociales, oggi insegna a Telecom Paris Tech. «Più che nella dicotomia tra spazio reale e spazio virtuale, noi tutti oggi viviamo in una realtà mista, che potremmo definire una realtà aumentata, dove il reale è aumentato, amplificato, trasformato dal virtuale. La nostra vita quotidiana si svolge in una continua sovrapposizione di spazi reali e spazi cognitivi digitali. Ad esempio, mentre siamo in auto o in treno, ci spostiamo fisicamente nello spazio ma contemporaneamente, grazie agli smartphone, ci muoviamo anche in un’altra dimensione virtuale».
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«Oggi la privacy non è più “il diritto di essere da soli”, come diceva Louis Brandeis. La definizione della privacy è mobile e va rinegoziata di continuo a seconda delle persone e delle situazioni. Twitter ci obbliga a interrogarci continuamente sul confine tra pubblico e privato. Questa ginnastica mentale è molto faticosa. Per reimparare da adulti cosa condividere e cosa no, si spendono molte energie e si rischiano errori che poi si pagano. In fondo, tutti noi oggi stiamo facendo un apprendistato collettivo dei nuovi media sociali. E naturalmente non è facile trovare la giusta misura».In questa evoluzione il corpo diventa un´interfaccia tra noi e il mondo digitale…
«Lo spazio digitale invita il corpo a mettersi in scena nella realtà virtuale. Anche i blog sono una maniera di mettersi in scena, confrontandosi con gli altri, il che implica sempre una ridefinizione della percezione del nostro corpo sulla scorta dell´immagine rinviata dagli altri. Nei media sociali gli altri intervengono a convalidare la rappresentazione di noi stessi. Così, il corpo, che era progetto di sé, diventa progetto di noi, per usare la terminologia di Michel Foucault. Naturalmente, se questa è un´opportunità che consente di arricchire costantemente la nostra personalità, è anche vero che tale situazione può produrre una crisi d´identità.»A proposito delle relazioni tra corpo e mondo digitale, c´è chi mette in guardia contro i rischi cognitivi della nostra dipendenza dalle nuove tecnologie. Lei che ne pensa?
«L´informatica è un prolungamento delle mnemotecniche del passato, le quali naturalmente non erano votate a svuotare il nostro cervello ma a renderlo più efficace. I computer vanno quindi considerati come un´estensione della memoria e non come una minaccia per le capacità cognitive. L´universo informatico è per noi una sorta di prolunga cognitiva, nonché sociale che ci consente un maggior numero di relazioni. L´agenda del telefonino o la lista di amici su Facebook ampliano la cerchia delle conoscenze con cui restiamo in contatto».Internet però è spesso accusato di desocializzare gli individui…
«È un falso mito. In realtà Internet produce nuove forme di socialità che ci consentono di modulare meglio l´equilibrio tra legami forti e legami deboli, vale a dire quei legami potenziali che sollecitiamo in modo discontinuo. Su Facebook, se all´inizio prevalgono i contatti con le persone che per noi sono più importanti, in seguito, diventando amici di amici, allarghiamo la cerchia dei legami deboli, facendoli durare nel tempo. Alla fine, la proporzione tra legami forti e deboli è molto diversa da quella presente nella vita reale. Di conseguenza, i media sociali offrono una socialità più ricca, che ci consente di entrare in contatto con ambienti che in precedenza ci erano preclusi. Prima di Internet vivevamo in una società di piccole scatole – la famiglia, il paese, il lavoro, ecc. – al cui interno eravamo uniti agli altri da legami forti. Con Internet, queste piccole scatole continuano ad esistere, ma inoltre disponiamo di passerelle verso molte altre scatole, vale a dire altre realtà sociali, con le quali magari conserviamo solo legami deboli. Insomma, ci troviamo al centro di reti glocali, nel senso che sono globali e locali allo stesso tempo».(…)
Ciò ci obbliga a ripensare la concezione dell´amicizia?
«In effetti, per secoli abbiamo privilegiato la definizione umanistica dell´amicizia. Basandoci su Cicerone, Seneca o Montaigne, abbiamo pensato l´amicizia come un legame disinteressato, privato e caratterizzato da una cooperazione forte. In rete, all´amicizia tradizionale, che comunque continua ad esistere, si sovrappone un altro tipo di legame che può essere anche utilitaristico. Questo legame, oltre ad essere pubblico e registrato in un database, può dar luogo a una cooperazione non simmetrica. Nell´amicizia classica infatti la relazione è sempre reciproca, non si può esser amici di qualcuno che non ci è amico. Su Twitter possiamo seguire qualcuno che non ci segue».Modificando le relazioni tra le persone, Internet trasforma anche le modalità dell´azione politica?
«I più ottimisti sottolineano le virtù democratiche della rete, ricordando ad esempio che la primavera araba sarebbe il tipico prolungamento di questo spirito democratico. Io però penso che Internet sia soprattutto uno stile politico, che può essere adottato da realtà ideologiche molto diverse tra loro. Lo si vede in America, dove sia i Tea Party che Occupy Wall Street sfruttano a fondo i media sociali, dando luogo a un´organizzazione orizzontale senza gerarchia e a geometria variabile. Questa struttura può essere molto efficace, ma non bisogna farsi eccessive illusioni. Le rivoluzioni non le fanno Twitter o Facebook. Le fanno sempre le persone reali scendendo in piazza. I media sociali possono solo coordinare, scambiare e amplificare le ricadute del reale. Ma senza mai sostituirsi ad esso».